…E pensare che in casa Possenti non si era certamente in pochi. Papà Sante e mamma Agnese avevano avuto tredici figli. Qualcuno, è vero, era tornato prematuramente in cielo e qualche altro viveva lontano per vari motivi. Ma la casa del governatore non era restata certamente vuota. Eppure “in famiglia si era come morti senza Checchino“. Le severe stanze dell’antico palazzo acquistavano vita solo se c’era lui, Checchino, dall’allegria contagiosa e dal rapinoso sorriso. Il fratello Michele ormai già vecchio ripensando alla propria giovinezza la vedeva ancora profondamente segnata dalla vivacità e dalla gioia del vispo Checchino.
Ragazzo tutto sprint
Famiglia nobile e numerosa quella di Checchino; i vagiti sono sempre nuovi e sempre freschi. Una famiglia soprattutto esemplare. Checchino vi è restato fino a diciotto anni, poi è vissuto sei anni in convento. Vita breve ma piena, vissuta di corsa, quella di Checchino: a scorrerla sembra venirti il fiato grosso. Quasi impossibile tenergli dietro. “Ci ha rubato il passo“, dirà con felicissima espressione padre Norberto Cassinelli, suo direttore spirituale. Vita sorridente e fascinosa: ad accostarla si scoprono orizzonti luminosi e sconfinati. E allora, via. Seguiamola, sia pure in punta di penna.
Subito le date estreme. Primo marzo 1838: nasce ad Assisi (Perugia), undicesimo di tredici figli, dall’assessore pontificio della città. Lo battezzano il giorno stesso con il nome del più illustre dei suoi concittadini, Francesco. In casa e gli amici però, lo chiameranno sempre Checchino e tra i Passionisti sceglierà il nome di Gabriele. Ventisette febbraio 1862: muore a Isola del Gran Sasso (Teramo). Dentro ventiqattro anni intensi. Il papà Sante Possenti (Terni 1791/1872) laureatosi a Roma, esercita funzioni di governatore, delegato ed assessore dello stato pontificio in ventisette cittadine sparse nelle Marche, nel Lazio e nell’Umbria. La mamma Agnese Frisciotti è una donna nobile, dolce e santa. Si sono sposati a Civitanova Marche (Macerata), paese natale di lei, il 13 maggio 1823. Lo stesso giorno tra novantasette anni, 13 maggio 1920, Gabriele sarà dichiarato santo. Dal loro matrimonio nascono tredici figli: due muoiono appena nati, due in tenera età, quattro (e tra questi Gabriele) nel pieno della giovinezza.
Nel 1841 Sante è nominato assessore di Spoleto (Perugia) dove si trasferisce con tutta la famiglia. Qui, a meno di quarantadue anni, muore Agnese che poco prima di volare al cielo vuole vicino a sé Checchino che non ha ancora compiuto quattro anni. Lo abbraccia a lungo, lo bacia e lo affida alla Madonna: vegli lei su quell’angelo di figlio ancora così piccolo e già così vivace. E la Madonna ne prende cura diventandone protettrice e guida. Vigila attentamente anche Sante che educa con la parola e con l’esempio. La mattina prima di recarsi in ufficio prega per un’ora e poi partecipa alla messa portando sempre con sé qualcuno dei figli. La sera il rosario: che nessuno manchi o prenda l’abitudine di addormentarsi. Al termine esorta tutti “inculcando i principi cristiani”. Nel 1844 Checchino inizia le elementari. Non c’è la mamma a preparargli la cartella o la merendina. Però la sorella Maria Luisa, di nove anni più grande di lui, e la governante Pacifica Cucchi la sostituiscono nel migliore dei modi. Nel 1846, riceve la cresima e nel 1851 la prima comunione.
A tredici anni affronta gli studi liceali tra i Gesuiti in quel collegio che a Spoleto chiamano orgogliosamente università: sono anni fondamentali per la sua formazione umana, culturale e spirituale. E’ intelligente, gli piace studiare, riesce ottimamente soprattutto nelle materie letterarie. I premi numerosi e gratificanti non si fanno attendere. Compone poesie anche in latino; le recite scolastiche lo vedono protagonista indiscusso ed applaudito. Esuberante, vivace ed arguto diventa un punto di attrazione per la sua festosità a volte eccentrica. Segue la moda, veste a puntino e una spruzzata di profumo non guasta. Ama l’allegria e dove c’è festa, lui non manca mai. “Era nato per l’amicizia“, diranno. Vuole primeggiare in tutto, ed a tutti i costi; “la bella vita non gli dispiace“. L’appellativo di “ballerino”, che indica non tanto l’amore per il ballo quanto il suo portamento elegante e spigliato, non è davvero immeritato. Ma è anche buono, generoso, sensibile alle sofferenze dei poveri; ama la preghiera. Sprizza vita da tutti i pori. La caccia è il suo sport preferito, il teatro lo affascina e vi si reca spesso con il papà e la sorella. Niente di strano se il cuore di qualche ragazza cominci a palpitare per lui.
Lo attirano i romanzi e legge avidamente autori del tempo come Manzoni, Bresciani, Tommaseo e Grossi. Ma non c’è molto tempo per sognare: il futuro preme e bisogna prepararlo. In famiglia altri hanno già scelto la propria strada. Lui cosa farà?… E’ vero: non gli manca niente, eppure niente lo soddisfa appieno. Quante volte durante gli spettacoli teatrali scivola via e va a raccontare alla Madonna i problemi e le ansie del suo nomade cuore. Quante volte si chiude nella sua cameretta davanti alla piccola statua dell’Addolorata, a lui carissima, e si ritrova con gli occhi lucidi di pianto. E poi, chi lo direbbe? sotto le vesti eleganti porta anche il cilicio. Un vero guazzabuglio quel giovane cuore.
I ripetuti lutti familiari e alcune brutte malattie in cui è incappato, gli hanno fatto apparire le gioie umane, brevi ed inconsistenti come fiocchi di neve. A tredici anni ad esempio si ammala gravemente alla gola; vede attorno a sé volti preoccupati e tanto tristi. Che spavento, povero Checchino! Implora ed ottiene la guarigione dal beato Andrea Bobòla. Proprio in questi momenti ha sentito una grande paura ed ha promesso di chiudersi in convento se fosse guarito. Ha chiesto addirittura di entrare tra i Gesuiti, ma poi la vita è tornata a travolgerlo con i suoi ritmi ed a distrarlo con i suoi richiami. Meglio così. Meglio che non sia partito. Non sarà la paura, ma l’amore a portarlo in convento.
Il padre è restio a farlo partire. E chi potrebbe dargli torto? Ha avuto tredici figli papà Sante, ed ha visto attorno a sé una solitudine sempre più larga. Teresa si è sposata, Luigi Tommaso è religioso domenicano, Enrico studia per diventare prete, Michele frequenta la facoltà di medicina e chirurgia a Roma, due figlie e quattro figli sono già morti. In casa, siamo nel 1855, gli restano solo Maria Luisa di ventisei anni, Checchino di diciassette, e Vincenzo di sedici. Sante ama immensamente tutti; però Checchino è Checchino. Gli è più caro di tutti, riscuote in società, gli funge ormai da segretario e per lui sogna un brillantissimo avvenire. Come farà senza di lui?
Nel 1855 un nuovo lutto, tra i più tristi. Il 7 giugno, stroncata dal colera muore improvvisamente Maria Luisa che in casa aveva sostituito la mamma. Checchino viene travolto da un uragano di perché. A che serve vivere e fare tanti progetti, se poi… L’idea del convento torna con più insistenza, ma il padre fa ancora di tutto perché essa non prenda contorni precisi. Cosa ci vorrà mai perché Checchino si decida veramente? Il 22 agosto 1856 per le vie di Spoleto si svolge la processione con l’immagine della Madonna venerata in duomo. Tra la folla c’è anche lui. Quando l’immagine gli passa davanti si sente ferire il cuore con parole di fuoco che gli scalfiscono l’anima: “Checchino, cosa stai a fare nel mondo? La vita religiosa ti aspetta”. Checchino esce dalla folla e si ritrova a piangere con il volto tra le mani. Questa volta è la madre che chiama. Come è possibile resistere? Niente e nessuno lo fermerà. Il 6 settembre (non sono passati che quindici giorni), parte da Spoleto ed il 10 successivo è già a Morrovalle (Macerata) per iniziare il noviziato. Lungo la strada ha superato prove non indifferenti scaglionate dal padre per esaminare ulteriormente la sua vocazione. Ma aveva ragione Michele nel dire a tutti in famiglia: “Voi sapete com’è Checchino; quando ha preso una decisione non si lascia smuovere”.
Il ballerino sorprende tutti
A Spoleto restano tutti sorpresi per la sua improvvisa partenza. La mattina dell’ 8 settembre il professore di lettere, padre Luigi Pincelli, entrato in classe, inizia la lezione in modo inconsueto: “Avete sentito del ballerino? E’ partito per farsi passionista“. A Morrovalle Checchino trova altri 10 novizi tra i quali il beato padre Bernardo Maria Silvestrelli. E’ maestro padre Raffaele Ricci e vicemaestro il venerabile padre Norberto Cassinelli . Checchino si sente finalmente appagato. Anche Sante ormai è sereno, convinto della vocazione del figlio. Accetta “gli imperscrutabili disegni della divina Provvidenza“. Lo ha sempre insegnato ai figli. Ora lui stesso china la fronte anche se il dolore per il distacco non trova aggettivi sufficienti. A diciotto anni, dunque, Checchino volta pagina. Il figlio del governatore con un roseo avvenire, il ballerino amante della caccia e del teatro si chiude in convento dove la vita per un occhio profano scorre monotona e feriale. C’è una spiegazione a tutto ciò? Certo. Da quando la Madonna per le vie di Spoleto lo ha invitato fissandolo negli occhi e parlandogli al cuore, Checchino ha visto chiaro il suo futuro. Un taglio netto con il passato e una fantastica accelerazione verso l’alto. Affascinato per natura dal bello, avendo intuito che la bellezza suprema è la santità, ne fa il suo unico obiettivo. E lo centra in pieno.
Il 21 settembre 1856 veste l’abito passionista e sceglie anche un nome nuovo: Gabriele dell’Addolorata; nome che gli richiama continuamente la Madonna. L’anno successivo emette la professione religiosa. Nel giugno 1858 si trasferisce a Pievetorina (Macerata) per gli studi filosofici sotto la guida di padre Norberto che lo seguirà fino alla morte. Il 10 luglio 1859 è ad Isola del Gran Sasso per lo studio della teologia e la preparazione immediata al sacerdozio. Il 25 maggio 1861 nella cattedrale di Penne (Pescara) riceve la tonsura e gli ordini minori. Subito dopo si ammala; ogni cura risulta vana. Non raggiunge neppure il sacerdozio. Il 27 febbraio 1862 “al sorgere del sole” muore confortato dalla visione dolcissima della Madonna invocata con struggente amore: “Mamma mia, vieni presto“. Ancora non sono passati sei anni dal suo ingresso tra i Passionisti. I confratelli restano lì attorno al letto a guardarlo nutrendosi di soavissimi ricordi. E commossi ricordano…
Ricordano la sua vita segnata dalla gioia. Una gioia che continuamente gli germogliava dentro, gli profumava la vita e che lui seminava a piene mani. Una gioia incontenibile: occhieggiava da ogni gesto, sgusciava da ogni atteggiamento; sbalordiva, affascinava, contagiava. Gabriele ne era diventato anche il cantore. “La contentezza e la gioia che io provo è quasi indicibile; la mia vita è una continua gioia. I giorni, anzi i mesi mi passano rapidissimi. La mia vita è una vita dolce, una vita di pace. Sto contentissimo“. Gioia e sorriso che non si sono spenti neppure davanti alla morte. Anzi sulla morte hanno ottenuto la loro vittoria più bella. Un giorno lo chiameranno il “santo del sorriso“. Loro, i confratelli, adesso non lo sanno. Ma non si meraviglierebbero se qualcuno lo sussurrasse…
Ricordano i suoi giorni. All’apparenza comuni. Invece mai accartocciati nell’abitudine. Martire e poeta del quotidiano. Il quotidiano è stato il suo pane, il semplice il suo eroismo, l’ordinario il suo canto. Le piccole fragili cose di ogni giorno, diventavano grandi per lo spirito con cui le compiva. Con esse ha disegnato il mosaico della santità. Lo ripeteva spesso: “Dio non guarda il quanto ma il come; la nostra perfezione non consiste nel fare cose straordinarie ma nel fare bene le ordinarie“. Il suo direttore rivelerà con una lapidaria espressione il segreto della sua santità: “Gabriele ha lavorato con il cuore“.
Ricordano la sua vita trascorsa all’ombra di Maria. Lei infatti “cominciò a Spoleto con il chiamarlo alla vita religiosa, lo accompagnò e proseguì ad aiutarlo nell’opera della sua santificazione; compì l’opera con venire a prendere l’anima sua e portarlo vicino a sé in paradiso. Pareva che egli non fosse che un impasto di Maria“. La Madonna, e la Madonna Addolorata in particolare, è stata la ragione della sua vita. Ha emesso un voto speciale: propagare la devozione all’Addolorata.
Ma è proprio morto Gabriele? Sembra dormire sereno. Lo guardano per l’ultima volta e lo vedono così come lo descriverà il direttore. “Il mio Gabriele, dirà padre Norberto, aveva un carattere molto vivace, soave, insinuante e insieme risoluto e generoso. Aveva un cuore sensibilissimo, pieno di affetto, un modo di fare sommamente attraente, piacevole, naturalmente gentile. Era gioviale e festoso, di parola pronta, arguta, facile, piena di grazia. Di forme avvenenti, era agile e composto in ogni movimento della persona. Aveva gli occhi tondi, neri, assai vivaci: sembravano due stelle ed erano bellissimi. La virtù e la santità poi a tutto metteva compimento. Riuniva tante doti che difficilmente si possono trovare tutte insieme in una sola persona. Nessuna meraviglia che si guadagnasse la benevolenza di tutti. Gabriele era veramente bello nell’anima e nel corpo“.
Fanno sì i funerali, celebrano le esequie. Ma più che pregare per Gabriele, pregano Gabriele: tutti sono convinti di deporre nel sepolcro, ricavato nella cripta della chiesa, non un cadavere ma un seme destinato a fiorire. I tempi li conosce solo Dio. Ma non saranno troppo lunghi. Nel 1866 i Passionisti vengono espulsi dal convento di Isola. Tutto ormai sembra consegnato al silenzio. Invece… Invece nel 1891 iniziano i processi di beatificazione; nel 1892 vi sarà l’esumazione delle spoglie mortali di Gabriele accompagnata da una pioggia di prodigi strepitosi. Nel 1894 i Passionisti tornano a Isola richiamati da quel giovane studente che non ne vuole sapere di essere morto. Il 31 maggio 1908 Gabriele è dichiarato beato; il 13 maggio 1920 viene proclamato santo con una cerimonia davvero straordinaria per quel tempo: sono infatti presenti circa quaranta cardinali, oltre trecento vescovi da varie parti del mondo ed una folla immensa.
Il resto è storia di un fascino sempre crescente, di una vita sempre più piena. Continua ad essere storia di una santità che non conosce tramonto. Nel mondo oltre mille chiese sono dedicate a lui. Ed in Abruzzo, ai piedi del Gran Sasso, dove un tempo sorgeva una piccola solitaria chiesina c’è ora uno dei santuari più noti e più cari, collocato da una statistica vaticana tra i primi quindici santuari più frequentati al mondo. Qui Gabriele chiama, attira ed accoglie. Innumerevoli pellegrini lo visitano. Sul suo sepolcro germogliano grazie a non finire, sbocciano miracoli stupendi. Per molti malati Gabriele è l’ultima speranza; per altri è l’unica speranza. Per tanti coricarsi sulla sua tomba è il sogno più lungamente accarezzato. E spesso la speranza non è delusa: il miracolo bacia un cuore in pena, rimargina ferite sanguinanti o rinnova un organismo dato per finito.
Gabriele è vivo, sorride ancora. Ancora regala grazie e miracoli.